Nel mio studio c’è un divano. Un bel divano grigio. È lì che si dispiega il mondo interno dei pazienti.
È collocato esattamente di fronte alla mia poltrona, con i miei occhi all’altezza dei loro. Tutti i pazienti quando entrano hanno la possibilità di scegliere dove sedersi e spesso scelgono il divano. Si sentono a loro agio. Ma a volte scelgono la poltrona. Sono quelli che hanno bisogno di sentirsi più protetti o autorevoli, ma questo è un altro discorso, che magari affronterò un’altra volta.
Come il caso di S., esattamente tre identità, almeno per il momento, che si alternano all’interno di una seduta di psicoterapia. S. vive con discontinuità la propria identità pur essendo consapevole delle varie parti di sé; anzi, molto spesso, durante i nostri incontri, pare di stare in una riunione condominiale. I condomini sono le sue parti frammentate: la bambina di cinque anni, quella di dieci e quella adulta. Negli ultimi tempi, S. riferisce, che ha fatto capolino in alcune riunioni condominiali un’altra identità, di tredici anni, ma ancora non si è manifestata in toto…vedremo.
Si sta comodi sul mio divano. Un divano che ha sopportato e supportato il peso di molte persone ma anche di altrettante personalità. E sì, perché occupandomi (o almeno ci provo) di disturbi dissociativi dell’identità (DID) mi capita anche questo. Ritrovarmi con più occupanti sul divano.
S. vive in uno stato perenne di discontinuità emotiva con momenti di lucidità, principalmente nel contesto lavorativo dove la parte adulta è perfettamente equilibrata ed integrata. Ha speso una vita tra psicoterapie e corsi e abbraccia il buddismo. Alla base del suo disturbo, come per la maggior parte del DID, c’è l’esperienza di un “abuso” durante la sua infanzia (iniziato appunto a cinque anni).
Di fronte a ripetute violenze l’individuo mette in atto la dissociazione, come se questo permettesse di canalizzare il dolore in differenti condotti e quindi poterlo sopportare meglio. Tale contiguità del trauma condiziona l’inevitabile confusione e scissione. E quando in seduta ci troviamo in una ricostruzione storica dei fatti o in una moviola di una determinata esperienza, ecco che quelle parti frammentate di lei escono in maniera prepotente cercando ognuna di loro di mostrare la propria sofferenza e incarnando esattamente le sembianze di quella bambina che in quel preciso momento prende voce.
Non è stato facile e non lo è per me farle rispettare continuamente i confini della relazione all’interno della seduta.
Per arrivare a mantenere i toni emotivi ad un livello decente siamo dovute passare attraverso furiose reazioni da parte di S.. Se l’ha presa con tutto ciò che poteva trovare nel mio studio. Vasi, fogli, sedie, libri e … anche con i cuscini del mio bel divano.
S. sente delle voci nella propria testa che spesso litigano tra di loro. Le capita a volte di avere delle amnesie che giustificano i suoi vuoti di tempo. Non sa esattamente cosa le sia successo. Come quando si ritrova in mezzo ad una strada o all’interno di una macchina di uno sconosciuto. È in quel momento che l’altra parte di lei prende il controllo su quella principale. Lavorare con l’obiettivo di integrare tutte le sue personalità in una sola, di connettere tutte le parti che la compongono in un’identità principale è, da un punto teorico, facile ma da quello pratico di una difficoltà unica. E, capire che non esiste più una minaccia, per lei, né qui ed ora, è qualcosa che S. ancora deve far suo.