pubblicato anche su AGR
Sappiamo tutti quanto sia importante per alcune persone il numero di Like, Visualizzazioni, Reazioni e Commenti lasciati sui Post creati nei Social Network. Dal messaggio di WhatsApp, visualizzato e senza risposta, alla foto del profilo Facebook o Instagram con decine di commenti, chi di noi non ha provato frustrazione o soddisfazione nel visualizzare il numero delle reazioni? Beati coloro che ne sono immuni, lo dico seriamente e poi proverò a spiegare il perché.
Molti, invece, sono fortemente influenzati dal numero di reazioni che riescono a generare, dal numero di follower/amici/contatti che hanno. Statisticamente sono perlopiù giovani, fruitori più assidui dei social, ma non solo. Proviamo a leggere il fenomeno, ma proviamo a farlo in maniera laica.
C’è sicuramente una questione sociale:
l’influencer che riceve migliaia di commenti, ha decine di migliaia di follower e genera milioni di visualizzazioni è percepito come un “modello” da emulare. Spogliamoci per un attimo da valutazioni etiche, proviamo a ragionare in termini concreti e pragmatici. È chiaro quanto possa essere allettante la possibilità di ricevere soldi, successo, fama, favori e cortigianeria semplicemente dichiarando la propria opinione o mostrandosi nelle proprie azioni quotidiane. Pensare di emulare le gesta di Samantha Cristoforetti è difficile, per molti impossibile; bisogna laurearsi in Scienze Aereonautiche, studiare, costruirsi una carriera. Per generare follower, invece, sembra sia sufficiente avere un social e… scrivere un post. Vero o no, è molto più alla portata di tutti.
La reginetta del ballo, pensiamo ai film americani, è colei che ad ogni azione genera, dai più, ammirazione, gelosia, invidia, desiderio, attenzioni. Poco importa se quello che dice o che fa, sia giusto, intelligente o razionale; di fatto genera attenzioni e reazioni. Stessa cosa vale per il quarterback e, seppur in maniera diversa, per il bullo della scuola. Passano per i corridoi e tutti si girano a vedere cosa fanno. Lo/a sfigato/a è nel tavolo in fondo, è da solo, isolato o, al massimo, nel suo ristretto gruppetto di amici. Siamo sinceri, chi vorremmo essere? A quale tavolo vorremmo sedere? A quale tavolo vorremmo fosse seduto nostro/a figlio/a?
Sarebbe, però, semplicistico ridurre tutto il fenomeno ad un tentativo di emulazione degli influencer e, poi, in questa sede ci interessano più i fenomeni psicologici che quelli sociologici.
Mi colpì molto la risposta di un ragazzo alla domanda quanto tempo passi sui social: “questa domanda non ha senso, sarebbe come chiederti quanto tempo passi a parlare”. I social, in effetti, sono strumenti di comunicazione e come tali sono mezzi utilizzati per trasmettere un pensiero, uno stato d’animo, un’emozione, vera o artefatta che sia. Di fatto, lasciando un post su un social, stiamo cercando di trasmettere qualcosa, di comunicare. Se la comunicazione non va a buon fine, se nessuno reagisce a ciò che “postiamo”, è come se nessuno recepisse ciò che diciamo. È come se fossimo in una stanza, in una festa o in qualsiasi altro posto pieno di gente (spesso gente che abbiamo definito “amici” sui social) e nessuno ti ascoltasse e nessuno “reagisse” alla tua comunicazione.
Essere ignorati genera, quantomeno, frustrazione. Essere invisibili agli altri è uno degli incubi più frequenti, soprattutto nell’età adolescenziale, ma non solo. Siamo animali sociali, abbiamo bisogno di attenzioni e di interazioni; può cambiare il mezzo di comunicazione, ma non l’essenza dei nostri bisogni.
Essere riconosciuti, riscontrati e generare una reazione negli altri è fondamentale nel nostro sviluppo e nel mantenimento del nostro benessere psicologico. L’isolamento, soprattutto quello subito, è rischioso. Se la nostra vita sociale si sposta verso il mondo social, lo fanno anche i nostri bisogni.
Questo, però, potrebbe spiegare il desiderio di ricevere un like, ma non spiega la generazione degli stessi. Cosa ci spinge, invece, a mettere una reazione ad un post e, soprattutto, a farlo in massa concentrandosi sui post prodotti dagli influencer?
Da una parte, credo, possa esserci una logica di sostegno. Mettere un riscontro al post di un amico/conoscente, mostra a questo la mia vicinanza. È come dirgli: ti vedo, sono con te, ti supporto, ti sono vicino (virtualmente e affettivamente). Supporto la tua immagine, quando l’amico/a posta una sua foto; gradisco la tua riflessione, quando posta un pensiero; rido della tua battuta; ti appoggio in una lamentela o ti sorreggo nel tuo momento difficile. E lo faccio pubblicamente, appagando la tua richiesta implicita di supporto e magari il mio desiderio di farlo vedere agli altri.
Quando, invece, viene dato riscontro ad un post di un personaggio pubblico, il cosiddetto influencer, credo la logica sia diversa. Se pensiamo al passato, esistevano entità che raggruppavano e portavano avanti un insieme di valori. I partiti politici, ad esempio, oppure lo Stato o il gruppo etnico. Oggi, negli Stati Occidentali, i grandi raggruppamenti che mettono insieme le persone vivono una fase di crisi. In Italia, fatta eccezione per il calcio, sono rare le entità che raggruppano insieme grandi masse di persone. La compartecipazione è difficile da sollecitare e gli individui faticano a sentirsi partecipi di qualcosa. Un tempo l’adesione ad un gruppo, piuttosto che la condivisione di alcuni valori o credenze, veniva mostrata nel modo di vestire, nel comportamento e nelle ritualità. Portando la kefiah al collo oppure con un taglio di capelli corto e un bomber sulle spalle, un tempo, era possibile mostrare a tutti la propria appartenenza. Appartenenza che, da un lato permetteva di esprimere il proprio sentire, dall’altro permetteva di non sentirsi soli, di percepirsi come facenti parte di un unicum più forte e strutturato.
Ritengo possibile che oggi, attraverso la partecipazione sui social ai post degli influencer, gli individui possano percepirsi facenti parte di una comunità. Comunità che condivide valori, pensieri, credenze e opinioni, che sostiene campagne sociali o attacchi politici. In poche parole, gli influencer soddisfano il bisogno di appartenenza della platea dei fruitori dei social. L’influencer dice, scrive, posta ed esprime quello che io penso (o io penso quello che lui esprime?) e lo fa con un megafono a cui non ho normalmente accesso, ma mi permette di pensare di esserne partecipe. Tale fenomeno vale sia nell’interazione di sostegno, vale a dire in tutti quei post a favore dell’influencer di turno, sia in quella di denigrazione o critica. Per capirci, rientrano in questa categoria, anche i cosiddetti “shitstorm”, vale a dire gli attacchi in massa per offendere o dileggiare chi ha opinioni contrastanti. Le “spedizioni punitive” del secolo scorso.
Se usiamo, quindi, queste lenti per leggere il fenomeno, spero appaia più chiaro il comportamento di chi vive assiduamente i social.
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