Carteggi di Psicologia
La Banca - Metodo Montessori

Didattica a distanza in una scuola Montessori

Lavoro con bambine e bambini di una seconda elementare. Faccio la maestra in una scuola montessoriana. Il nostro motto è “Aiutami a fare da solo”, lo ha scritto Maria Montessori più di cento anni fa. Crediamo che l’autonomia sia importante: perché ogni bambino ha il suo modo di imparare e di rendere unico il sapere.

In classe la cattedra non c’è. Così come non ci sono astucci o quaderni solo miei o solo tuoi. La mattina bambine e bambini scelgono matite e penne dai cestini dei materiali comuni e il pomeriggio, prima di tornare a casa, rimettono tutto al loro posto. Pensiamo che gestire un materiale comune aiuti tutti noi ad essere responsabili, a sentirsi utili e a scoprire alcune nostre abilità.

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Ognuno ha un incarico che tutte le settimane cambia: spazzare il pavimento, servire a tavola e sparecchiare, distribuire quaderni e libri, curare le piante e il nostro ambiente diventa una forma di conoscenza.

Perché pensiamo anche che la scuola debba preparare alla vita, elevando le persone al di sopra delle nozioni imparate che diventano uno strumento per affrontarla, giungendo a una consapevolezza sociale del mondo. Ogni giorno proviamo a lanciare sfide mettendo a disposizione gli strumenti per affrontarle: leggere l’orologio, scrivere un libretto, scoprire gli alberi o i minerali, sperimentare.

Lavoro in team con altre insegnanti e siamo tutte abbastanza d’accordo quando diciamo che non ci piace insegnare, ma amiamo quando i bambini imparano. In classe certe volte si lavora tutti insieme, altre volte invece ognuno è libero di scegliere cosa fare: scrivere, leggere, disegnare, calcolare. Con il suo modo tutto speciale e con il suo tempo.

Quando sono a scuola mi siedo accanto a piccoli gruppi di bambini e presento i materiali che ho preparato a casa e sono felice di fare scuola in questo modo perché ho la possibilità di interagire con chi impara adattandomi al talento e al bisogno di ognuno. La comunicazione avviene con poche parole e lo scambio di sguardi e sensazioni è fondamentale: ho letto che con questo fatto c’entrano i neuroni specchio, ma a me piace pensare che sia amore. Magari questi due fatti sono collegati.

Spesso accade che entro in classe con un’idea in mente: “Oggi presento il nome proprio” mi dico, ma poi capita che bambine e bambini intreccino alla mia presentazione le loro esperienze, i loro ricordi, i loro umori e le loro domande, allora tutta la giornata si scombina e si prende il volo per altrove. Succede che cominci parlando di grammatica e finisci con una domanda di chimica o di arte.

Poi il 5 marzo questa realtà ha smesso di esistere. La scuola ha chiuso a causa del Covid-19.

I bambini sono tornati a casa con poche cose nello zaino. Poche penne, poche matite, pochissimi quaderni. “Tanto torniamo presto” abbiamo ingenuamente pensato in quella mezz’ora di caos mentre altre classi affollavano le scale per dirigersi all’uscita. Invece è cominciata un’avventura chiamata “Lockdown” che significa “Confinamento”, siamo rimasti chiusi a casa e a scuola non siamo tornati più.

Forse il primo fine settimana ci siamo sentiti un po’ in vacanza, “Dai che tra poco si torna”, ci dicevamo, e non è mancata la solita battuta sui docenti sfaccendati, ma poi la chiusura ha cominciato a pesare e, tra un notiziario e l’altro, abbiamo capito che quella condizione si sarebbe protratta per tutto il resto dell’anno scolastico. E ci siamo chieste: e ora come si fa? E i bambini?

In che modo percepisci una situazione del genere quando hai sette anni?

Magari all’inizio ti diverti anche, ma quando capisci che da casa non puoi uscire, forse, un po’ ti spaventi anche. Storia, scienze, geografia, matematica, italiano sono passati in secondo piano e il primo pensiero di noi maestre è stato: bisogna raggiungere tutti, bisogna aprirci, spalancare una porta, sorridere e tornare ad accogliere la voglia di apprendere anche se siamo chiusi in casa.

La scuola ci ha chiamate ad affrontare una sfida ancora più difficile da superare perché inedita. È nata subito l’urgenza di costruire un “qui”, un luogo in cui trovarsi, raggiungersi, raccontarsi come va, abbiamo pensato di ripartire dall’ambiente così come Montessori ci ha indicato resistendo alla tentazione di “metterci in cattedra” registrando videolezioni a senso unico. Per prima cosa abbiamo creato una “Classe virtuale” su una piattaforma che fortunatamente avevo conosciuto qualche anno prima durante un Erasmus+.

Abbiamo cercato di rendere questo posto più simile possibile alla nostra classe rendendo disponibili materiali, giochi, piccoli spazi dove salutarsi e condividere notizie, creati da noi pensando alle potenzialità di ognuno. Perché sì, è vero che la rete ha cominciato a brulicare di contenuti scaricabili, ma è anche vero che la rete, non conosce la Seconda E.

E poi: telefonate, messaggi, email e “videoconferenze”. Tutto si è mosso intorno all’emergenza di ritrovarsi e noi abbiamo afferrato questo bisogno per costruire e valorizzare saperi e contenuti. Imparare ad usare la tecnologia è diventato un bisogno reale, così come scrivere, leggere, studiare, pensare a nuove idee.

Ma a sette anni, otto al massimo ti serve un adulto accanto, soprattutto all’inizio, perché il computer per te ha quasi sempre significato giocare e la tua voce non arriva se qualcuno non ti aiuta e noi maestre eravamo troppo lontane. Così abbiamo puntato tutto sul senso di comunità che mano a mano e in modo spontaneo ha cominciato a radicarsi e a crescere ogni giorno un po’ di più.

È stato come se gli adulti presenti nelle case fossero diventati una parte di noi, un tramite, un traduttore, una prolunga tra le nostre parole e le azioni dei bambini. La scuola è arrivata nelle case a scompigliare programmi, orari e abitudini e le case sono arrivare a noi maestre con tutto il loro carico di storie grazie all’alleanza con le famiglie fatte di genitori, sorelle, fratelli, zii, nonni.

Abbiamo collaborato a trasformare i nostri schermi e le nostre case in un nuovo ambiente di apprendimento e guardandoci in questo modo così diverso abbiamo conosciuto un po’ più di noi, un po’ più di loro.

Ma non tutti avevano un computer a casa, non tutti sapevano usarlo, non tutti avevano qualcuno accanto disponibile all’aiuto, perché mamma lavora collegata tutto il giorno, perché papà, per il lavoro che fa, invece esce e torna tardi, perché i nonni non escono più, perché il computer c’è ma serve a mia sorella e metterci tutti sulla linea di partenza non è stato semplice.

La scuola è riuscita a consegnare un tablet a chi ne aveva bisogno e quando parlo di scuola qui mi riferisco alle persone che ci sono dentro, a quelle che partecipano direttamente e indirettamente a trasformarla in azioni. Alla fine quasi tutti, e in quel quasi c’è un vuoto incolmabile, sono riusciti a partire un po’ correndo e un po’ zoppicando.

Abbiamo visto bambine e bambini immersi nelle loro realtà tutti collegati allo schermo condiviso, ognuno con uno sfondo diverso a raccontare con la loro immagine il proprio modo di essere lì: camerette ordinate e piene di giochi, librerie luminose e ampie, ma anche piccole stanze a volte affollate e caotiche altre silenziose e vuote, cucine in piena attività e altre un po’ più ferme, bucati stesi e luci accese, spente, fioche o brillanti, allegria, solitudini e, certe volte, assenze.

Abbiamo condiviso le difficoltà dimenticando orari e scadenze perché non tutti potevano mandare una mail o caricare un compito nell’ora di scuola e siamo state contente di riceverlo anche se erano le undici di sera o le cinque del mattino.

Lo schermo è diventato un luogo dove incontrarsi per un saluto, un compleanno, una lettura, senza sabati o domeniche a sbarrarci la strada, abbiamo cercato di ricreare nella rete la nostra aula dove ognuno era libero di scegliere il lavoro da fare per “imparare a fare da solo”, abbiamo usato le abitazioni come palestra per gli incarichi, prendersi cura e sentirsi responsabili dello spazio condiviso (sì abbiamo fatto anche le pulizie), ognuno coi suoi modi e coi suoi tempi. Abbiamo preso quello che c’era perché si può imparare qualcosa ovunque. Le videoconferenze sono diventate un telegiornale, un teatro e una rubrica di ricerche con i bambini inviati speciali, collegati col bisogno vivo e vero di leggere le notizie che ognuno aveva scritto.

In un certo modo noi insegnanti siamo riuscite a non salire in cattedra limitandoci a costruire occasioni e ambienti, affidandoci alla collaborazione con gli “adulti” di casa e lasciando spazio, quanto più possibile, ai veri protagonisti dell’apprendimento e al loro reale bisogno di leggere, di scrivere, di fare domande, di cercare risposte e di pensare: di imparare insomma.

La distanza però ha sempre istillato in noi il dubbio di aver lasciato discorsi in sospeso, di non aver raccontato abbastanza o di aver usato le parole sbagliate, perché alla fine, lo schermo è freddo e non rimanda per intero le emozioni e le incertezze. L’amore insomma.

Qualcuno non ce l’ha fatta a collegarsi sempre, qualcuno per niente, non ha voluto, non ha potuto, perché lo schermo è un mezzo comunque invadente, che cozza con la timidezza e la sensibilità o perché tutti in famiglia avevano da fare. E proprio questa assenza ci ha restituito il valore unico della scuola fatta dal vero.

Quella dove tutti sono presenti: bambine, bambini, genitori, famiglie collaboratori, segretari, dirigenti, e tutti gli insegnanti, anche quelli precari che il confinamento ha rimandato a casa senza nemmeno un saluto o un ringraziamento.

Abbiamo visto negli sguardi oltre il vetro, richieste di aiuto, impazienza, voglia di uscire da lì a tirarci per la manica per fare un’altra domanda ancora e abbiamo sentito dentro di noi la stessa voglia di abbracciarci, di avvicinarci, di parlarci guardandoci negli occhi. Abbiamo sperimentato che la distanza può essere superata, che la scuola può essere ovunque ma soltanto se la si mette alla portata di tutti.

E questo fatto non può che esistere solo quando siamo insieme, gli uni davanti agli altri, senza schermi o tastiere a dividerci. Nessuno escluso.


Qui puoi leggere l’esperienza di un genitore.
Qui puoi leggere
 il punto di vista di un insegnante delle scuole superiori.


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