Francesco si ferma in un’area di sosta. Sceso dalla macchina, sulla scalinata che porta all’autogrill, nota un capannello di persone intorno ad un tavolino dove sono appoggiate banconote da 50 euro e carte da gioco. Le persone fanno chiasso, mentre guardano un uomo che sposta 3 carte: “l’asso vince, i 10 perdono”. L’uomo sposta le 3 carte velocemente, ma non troppo. Francesco, mentre continua a guardare la scena, viene avvicinato da un tizio che gli parla in maniera confidenziale e gli fa notare quanto sia facile vincere.
Giuseppe sta passeggiando in un parco della propria città portando a spasso il proprio cane. È una bella giornata e, in un lato più isolato, nota un bambino. Il bambino avrà meno di 6 anni, è ben vestito e continua a spostare lo sguardo in ogni direzione in cerca di qualcuno o qualcosa, cammina lentamente ed è sull’orlo del pianto. Intorno a loro, a perdita d’occhio, ci sono solo Giuseppe, il suo cane ed il bambino.
Non so se queste due scene fanno parte della vostra personale esperienza, vale a dire se vi sia mai capitato di trovarvi in situazioni simili. Non credo però vi sia difficile immedesimarsi e provare a presumere quello che possa accadere subito dopo. Lasciamo stare, però, per un momento il comportamento che mettereste in atto; soffermiamoci sul processo mentale che precede l’azione.
Il gioco, o truffa, delle 3 carte oramai è noto ai più. Probabilmente ne avrete sentito parlare, è possibile che abbiate visto questa scena in un film (Febbre da Cavallo) e forse avrete anche, in qualche occasione, provato a giocare (l’esito non ci interessa). Di fatto non avete alcun dato certo sull’uomo che avvicina Francesco e che cerca di farlo giocare. Quasi sicuramente, però, avete ipotizzato il fatto che sia un complice della truffa.
Anche nel caso del bambino nel parco, né Giuseppe né voi, avete dati certi su ciò che gli sia accaduto. Nell’esperienza comune, d’altra parte, è pacifico che un bambino in età prescolare non gira da solo nel parco e i segni della paura sono facilmente leggibili. Probabilmente avete ipotizzato che si sia perso.
Nella vita non ci è dato esimerci dal confrontarci con la nostra esperienza; anzi è proprio sulla base di questa che leggiamo ciò che ci accade.
Non solo in assenza di esperienza saremmo continuamente in balia degli eventi, ma è imprescindibile il fatto che non può esserci conoscenza senza esperienza. Non intendo il fatto che dobbiamo necessariamente sperimentare qualcosa per conoscerla, ma che per interiorizzare un fatto o un evento siamo naturalmente portati a confrontarlo con le nostre esperienze pregresse. Qualcuno parlava del processo di assimilazione e accomodamento come elementi fondanti dell’adattamento. Vediamo un animale con il muso lungo, la criniera, 4 zampe con gli zoccoli e diciamo “cavallo”; Francesco pensa che l’uomo che lo avvicina sia un complice, Giuseppe che il bambino si sia perso. Sulla base di pochi elementi circostanziati, effettuiamo una generalizzazione ed effettuiamo alcune inferenze.
Qui arriviamo al pregiudizio che nelle scienze sociali è definito come un’anticipazione critico-cognitiva sommaria della natura di un oggetto (o soggetto) sconosciuto.
Nella quotidianità facciamo continuamente ricorso ai pregiudizi per valutare il mondo che ci circonda. Camminiamo in una via e categorizziamo le persone sulla base di ciò che ci è noto e dei pochi elementi che abbiamo a disposizione. La ragazza che ci si avvicina sorridente con un volantino in mano: promoter. La coppia di anziani in pantaloncini e con il naso all’in su: turisti. E così via.
Il fatto importante è che nel 99% dei casi tali anticipazioni sono corrette e sulla base di queste “sommariamente” reagiamo in coerenza. Ringraziamo e decliniamo la proposta della promoter; chiediamo ai turisti se hanno bisogno di informazioni.
Dirò di più, spesso ricerchiamo anche negli altri i pregiudizi e ce ne avvaliamo. Mettiamo il vestito appropriato per il colloquio di lavoro o l’appuntamento galante perché il nostro interlocutore, non appena ci vede, si faccia l’idea che noi vogliamo trasmettere, prima ancora che ci abbia conosciuto. Sappiamo che questa idea condizionerà il resto dell’incontro.
In alcuni casi il pregiudizio è anche un elemento fondamentale: alcuni specialisti sono ricercati proprio perché riescono in breve tempo, sulla base della loro esperienza, a valutare con pochi elementi a disposizione, il modo migliore di agire. Il chirurgo del pronto soccorso, nei casi più critici, ipotizza, nel lasso di pochi secondi, il problema e interviene. Non perché conosce approfonditamente il paziente ed ha fatto un’accurata diagnosi; ma perché riduce i dati in suo possesso ad una categoria più ampia di probabili patologie. E sulla base di queste, opera.
È da notare, infine, che il pregiudizio è tanto più forte e radicato, tanto più l’esperienza è corposa. Il processo di accomodamento, vale a dire il modo con il quale noi modifichiamo le nostre credenze sulla base delle nuove informazioni che scartano rispetto alla nostra conoscenza, è significativo quando le esperienze sono poche. Con il passare del tempo e l’accumularsi delle esperienze diventa sempre più un finetuning.
In conclusione, se, leggendo il titolo, vi aspettavate che in questo pezzo si parlasse di razzismo e discriminazioni…. avete agito sulla base di un pregiudizio, ma questa volta non ha funzionato.
P.S.: Per approfondire il pregiudizio con un testo leggero, ma ben documentato e scritto: In un batter di ciglia. Il potere segreto del pensiero intuitivo. M. Gladwell. Mondadori, 2014.
Un commento su “Apologia del pregiudizio”
Bella la definizione del pregiudizio come euristica nell’interpretazione della realtà; c’è solo da essere sempre pronti a rinegoziarla, questa interpretazione “di lavoro”, perché altrimenti ci si impigrisce e si perdono sfumature.