Di mestiere faccio l’insegnante, e da due anni lavoro sul sostegno.
L’interruzione delle attività didattiche iniziata il 5 marzo 2020, e che dai primi annunci della politica sarebbe dovuta finire dopo dieci giorni, come sappiamo ha lasciato il posto alla chiusura delle scuole e al prolungamento delle attività a distanza (prima raccomandate, poi obbligatorie).
A tre mesi da quella data, e a conclusione dell’anno scolastico, la prima parola che mi viene in mente è disinformazione: chi partecipa al dibattito (a distanza) sulla scuola, sa davvero di cosa parla? I social networks sono diventati il luogo privilegiato delle comunicazioni della politica, ed è lì che chiunque dice la sua, in quei luoghi virtuali della rete che Umberto Eco riconosceva come promotrice dello scemo del villaggio a portatore di verità.
Il luogo comune che accompagna da anni la mia categoria è quello di un lavoratore poco impegnato, impiegato mezza giornata e con il privilegio di tre mesi di ferie. Nulla di più sbagliato, ancora di più in regime di didattica a distanza. Niente presenza a scuola, è vero, ma programmazioni da ripensare e preparare ex novo, obiettivi da rimodulare, studenti che chiudono microfoni e webcam timorosi di interagire, messaggi Whatsapp che si moltiplicano (per coordinarsi tra colleghi e supportare i ragazzi), controllo ossessivo della posta elettronica e del sito di istituto, per non perdere le comunicazioni di servizio.
La tecnologia ci ha fagocitato:
Il lockdown ha amplificato l’uso di ogni strumento informatico e di comunicazione, e ha moltiplicato i video collegamenti su una serie infinita di piattaforme, anche nel desiderio di avere una sorta di contatto esterno, che non abbiamo realmente avuto in questi mesi se non virtualmente.
Usare la tecnologia per lavorare meglio ed essere innovativi? Un’utopia, allo stato attuale. La sua invasività – in questa situazione ancora più prepotente – ha impedito di definire un confine tra vita privata e lavorativa.
L’idea di ‘straordinario’ è diventata obsoleta quanto un telefono a gettoni rispetto a uno smartphone: siamo entrati nelle case delle famiglie (di studenti e docenti, ben inteso), e in molti casi abbiamo assistito all’osservanza o meno delle direttive dei vari DPCM (visite di parenti, amici e assistenti, uso delle mascherine); il diritto alla disconnessione è un lontano ricordo, computer e smartphone sono oggetti della quotidianità e persino di domenica i colleghi ti contattavano per organizzare la settimana entrante; sono state fatte lezioni pomeridiane per andare incontro alle esigenze delle famiglie, ma se la didattica coincideva con le riunioni degli organi collegiali, ti veniva chiesto di spostare la lezione, come se si dovesse essere comunque a disposizione.
Se non eri disponibile, si paventava il rischio di essere tacciato come uno che non rispetta l’impegno didattico con i propri studenti. E intanto qualche soci(opatic)al networker polemizzava su cosa facessero gli insegnanti, che percepivano lo stipendio con le scuole chiuse, e sindacava sul modo in cui conducevano il loro lavoro in una situazione di emergenza che (come tutti) ci è piombata addosso.
Essere un insegnante precario, che ogni anno chiede il sussidio di disoccupazione a luglio e non sempre è certo di riprendere servizio a settembre, sembrava essere diventato un privilegio.
Abbiamo avuto una rimodulazione dell’orario, è vero, ma abbiamo dovuto preparare nuovo materiale, organizzarci collegialmente e assistere chi per vari motivi non riusciva a usare le piattaforme. Molti colleghi (ma anche famiglie) non vanno così d’accordo con le nuove tecnologie, e tutti hanno dovuto imparare qualcosa di nuovo e non sempre facile, senza tirarsi indietro.
Sono state convocate riunioni chiedendo il giorno prima di anticiparne l’orario, tramite canali non ufficiali, come se lavorare da remoto significasse essere sempre disponibili, come se la vita privata non esistesse più o avesse perso importanza. Non è questione di flessibilità ma di regole da rispettare anche in emergenza. Il lavoro agile così concepito ha annullato le riduzioni del carico di lavoro: chi si è trovato a fare didattica a distanza in regime di part-time ha lavorato come e quanto chi era a tempo pieno, ma ha percepito uno stipendio ridotto.
Parlare di didattica a distanza significa stabilire come farla e in che modo, quali obiettivi porsi (soprattutto verso la disabilità), superare il discorso dei contenuti e lavorare sull’inclusione e sul coinvolgimento diretto delle famiglie. Questo stabilisce il patto educativo che ogni studente stipula con una scuola che ormai è considerata comunità educante, e che a distanza perde inevitabilmente quel senso di condivisione di vita sociale: trovarsi dietro a uno schermo non ti consente di toccare niente di quello che vedi. Dichiarare mesi prima della fine della scuola che tutti gli studenti sarebbero stati ammessi all’anno successivo ha gettato alle ortiche il lavoro di un anno, oltre che ogni buona intenzione pedagogica.
La didattica a distanza ha dimostrato potenzialità e criticità, e forse queste ultime sono maggiori rispetto alle prime.
Se escludiamo le video lezioni, che hanno spesso riproposto telematicamente la tanto odiata didattica frontale, le piattaforme virtuali potrebbero essere utili per i recuperi, per gli approfondimenti o per arrivare a offrire del materiale a chi non può essere in aula per cause indipendenti dalla sua volontà. E qui viene in mente la seconda parola chiave: volontà. Chi riceve didattica a distanza deve avere la volontà (e la possibilità) di partecipare, che soltanto il contesto scolastico in presenza è in grado di stimolare. A distanza, si rischia un aumento della dispersione scolastica, e l’intenzione inclusiva rischia di portare a conseguenze esclusive.
Il 28 marzo la Ministro Azzolina ha scritto una lettera a tutto il personale della scuola, ringraziando per gli sforzi profusi e per aver attivato la metodologia alternativa a quella in presenza. Ringraziare non serve, perché il messaggio che passa è erroneo: nessuno ha fatto un favore a nessun altro, i docenti hanno lavorato con professionalità. Gli insegnanti non sono quelli che la Azzolina ha chiamato «eroi anonimi» ma professionisti che fanno il loro dovere con dedizione. Molti di loro – tra cui il sottoscritto – sono precari con anni di servizio alle spalle. Non chiedono medaglie ma il diritto a essere stabilizzati, perché lo meritano e per l’abnegazione che da anni mettono nel lavoro che svolgono quotidianamente da settembre a giugno.
Cosa succederà il prossimo anno?
Ancora non sappiamo in che condizioni riprenderemo a lavorare. L’assunzione dei precari è già slittata, e si ricomincerà con le supplenze e con le graduatorie provinciali, che gettano ancora più incertezza sugli incarichi. Il Decreto Scuola di recente approvazione sta creando molto dibattito (disinformato e prevalentemente via social) sul tema della sicurezza, sul plexiglas e sulle mascherine, sugli ambienti scolastici e sul dimezzamento delle classi: “mi preoccuperei più per il futuro, quando questo aspetto potrebbe passare in secondo piano”, mi suggeriva giustamente un collega giorni fa. Argomentava la sua preoccupazione come segue: negli ultimi anni abbiamo subito senza colpo ferire una serie di “riforme” dal dubbio valore didattico ma molto pesanti dal punto di vista lavorativo; in sintesi, “lavori di più e ti pago uguale (di meno)”. La didattica a distanza fa parte del pacchetto.
Essendo pagati, abbiamo avuto l’esigenza morale e professionale di lavorare. Tuttavia dobbiamo riflettere su alcuni aspetti: la didattica così come è stata fatta è efficace? Tutti abbiamo rimodulato (cioè tagliato) le programmazioni. Prospettive future? Se stai male, fai lezione da casa? Se lo studente sta male, gli fai lezione online oltre all’attività normale? Vogliamo parlare del carico di lavoro e della retribuzione? Ne ho già fatto menzione ma, senza esagerare, personalmente ho rilevato un notevole aumento del monte ore (senza considerare lo stress da lavoro correlato) che sembra ragionevole stimare intorno al 30%. Se qualcuno pensasse che è poco e tutto sommato legittimo, preciso che un aumento di stipendio direttamente proporzionale sarebbe di 300/400 € netti in più. Al mese. Non proprio spiccioli.
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