Nel corso degli anni di lavoro con i pazienti mi sono interrogata sull’importanza dello sguardo nella costruzione del setting psicoterapico, luogo dove si confrontano due soggettività, il paziente ed il terapeuta. Che cos’è lo sguardo? Il termine sguardo deriva dal termine “sguardare” dal latino aspicere, inspicere, intueri ( Accademia della Crusca). Lo stesso che guardare, ossia dirigere gli occhi su qualcosa o qualcuno.
Il primo sguardo che incontra il bambino in relazione al mondo è quello del caregiver con il quale, secondo la teoria di Bowlby, stabilirà un legame di attaccamento che si svilupperà secondo un modello a 4 stadi (Shaffer, 1998): pre- attaccamento, costruzione della relazione di attaccamento, attaccamento, relazione regolata da un fine. Dal secondo anno in poi man mano che il bambino diventa capace di elaborare rappresentazioni interne, si forma anche un modello di Sé, degli altri e delle relazioni significative. Queste rappresentazioni sono state ben definite da Bowlby “ Modelli Operativi Interni” e li ha così descritti (1973):”Ogni individuo costruisce modelli operativi del mondo e di sè stesso in esso, con l’aiuto dei quali percepisce gli avvenimenti, prevede il futuro e costruisce i suoi programmi. Nel modello operativo del mondo che ognuno si costruisce, una caratteristica chiave è la nozione che abbiamo di chi siano le figure di attaccamento, di dove possano essere trovate e di come ci si può aspettare che rispondano. Similmente, nel modello operativo di sè stessi che ognuno di noi si costruisce, una caratteristica chiave è la nozione di quanto accettabili o inaccettabili noi siamo agli occhi delle nostre figure di attaccamento”.
Lo sguardo reciproco, quindi, è un elemento fondamentale nell’attaccamento. Lo sguardo della madre verso il proprio piccolo è uno sguardo speciale, è uno sguardo solo per lui. Ci sono emozioni che si attivano in rapporto a come siamo guardati e a come noi guardiamo gli altri. Noi ci guardiamo attraverso gli sguardi degli altri e li interpretiamo. Definito ciò, essendo quella terapeutica una relazione che rappresenta un legame di attaccamento, lo sguardo entra di prepotenza nel rapporto “vis a vis”. Il paziente tenderà quindi ad applicare alla relazione con il terapeuta i significati costruiti nella relazione con il caregiver. Gli sguardi sono perfettamente soggettivi: ognuno di essi rappresenta la prospettiva personale su l’altro.
Dunque lo sguardo dei genitori può avere una sua implicazione anche nella genesi del disagio mentale del paziente? In effetti, nella descrizione della propria storia di vita, molto spesso i pazienti con traumi e/o neglect fisico o emotivo, descrivono lo sguardo del caregiver “inquisitorio”, “ di traverso”, “minaccioso” , “spaventante” o addirittura ”assente”.
Ora, il termine guardare non implica necessariamente l’idea di vedere. Tanto per riprendere una citazione famosa del filosofo statunitense Henry David Thoreau “Non importa quello che stai guardando , ma quello che riesci a vedere”.
Vedere deriva dal latino “videre” e si pone come significato quale “percezione della realtà attraverso la vista”. Guardare è, come detto precedentemente, legato in modo particolare alla percezione di sé e poichè la dissociazione è spesso una risposta al trauma, caratterizzata da una interruzione o discontinuità nella normale integrazione di coscienza, memoria, identità, emozioni, percezioni, rappresentazione del corpo, i significati dissociati all’interno del sé potrebbero essere attribuiti all’altra persona reale, al di fuori di sé. La dissociazione non è una difesa dal dolore del trauma, ma una disintegrazione della coscienza e della intersoggettività. Essa comporta difficoltà nelle relazioni interpersonali, deficitaria capacità di regolare le emozioni in caso di stress, sviluppo difettoso e carente esercizio della mentalizzazione (Liotti & Farina, 2011). Il paziente, con modelli operativi interni così fatti, estrarrà dai propri ricordi delle relazioni di attaccamento tre significati di base inconciliabili tra loro, che vanno a costituire quello che Liotti, riprendendo Karpman (1968), chiama Triangolo Drammatico: persecutore, vittima e salvatore. Esse costituiscono le rappresentazioni mentali di sé e dell’altro, sulle quali, durante il corso della vita, l’individuo costruirà le future relazioni e quindi la propria identità inevitabilmente non integrata ( Liotti,2001). Nessuno, più del paziente dissociato, quindi, si sente vulnerabile ed esposto allo sguardo di un’altra persona.
Nella relazione con il terapeuta queste tematiche, il più delle volte, si presentano attraverso pensieri di “sentirsi un mostro” e di “non essere degni”, che evidenziano la funzione ed il ruolo dello “sguardo dell’Altro”, con tematiche quali vergona e/o colpa( tematiche che hanno giocato un ruolo essenziale nelle vicende bibliografiche del paziente). Queste tematiche, a loro volta, rimandano all’attenzione del clinico la percezione soggettiva sperimentata dal paziente nella relazione con il proprio caregiver; percezione improntata molto spesso su sentimenti depressivi di autosvalutazione, con rischio di atti autolesionistici e suicidari.
Lo sguardo del terapeuta diventa in questo modo, il teatro , il palcoscenico in cui vengono esacerbati i vari modi in cui il Sé può manifestarsi.
Riferimenti bibliografici
Argyle M., (1978), Il corpo e il suo linguaggio. Studio sulla comunicazione non verbale, Zanichelli, Bologna
BOWLBY J. (1973), Attachment and loss. II: Anxiety and Anger, Hogarth Press, London (trad.it. La separazione dalla madre, Boringhieri, Torino, 1975).
Farina B. & Liotti G. (2011), Dimensione dissociativa e trauma dello sviluppo. Cognitivismo clinico, 8, 1, pp. 3-17.
Karpman S.( April 1968) , Fairy tales and script drama analysis, “ Transactional analysis Bulletin, 7, N° 26
Liotti G., (2001), Le opere della coscienza. . Raffaello Cortina Editore, Milano
Liotti, G., Farina, B. (2011) Sviluppi traumatici: Eziopatogenesi, clinica e terapia della dimensione dissociativa. Raffaello Cortina Editore, Milano
Shaffer H.R. (1988) ,Lo sviluppo sociale. Raffaele Cortina Editore, Milano